CONFUTAZIONE DEL DIRITTO AL LAVORO
Paul Lafargue
arteideologia raccolta supplementi
nomade n.1 dicembre 2007
LETTI E RILETTI
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_Mantenersi in forma
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Cari compagni,
non voglio limitarmi solo ad approvare la vostra richiesta di provvedere ad una nuova pubblicazione del mio scritto sulla confutazione del diritto al lavoro apparso tre anni orsono nel settimanale “L’Egalite" con il titolo “Il diritto all’ozio”.
Avendone l’occasione, e soprattutto disponendo del tempo benevolmente concessomi dallo Stato (di detenzione), ho ripreso in mano il testo primitivo per apportarvi alcune correzioni.
Integrato con qualche nota aggiuntiva, invio pertanto di seguito alcuni dei brani da me revisionati del capitolo 2, cui tengo particolarmente.
Dal carcere di Saint-Pélagie,
Vostro Paul.

Prendete dunque in mano l'ultima edizione e controllate bene che nella nuova siano riportati integralmente i brani che vi indico qui di seguito. Da dove iniziare se non dalla Introduzione ?...

[ introduzione ]

- Thiers, alle sedute della commissione per l'istruzione primaria del 1849, diceva: "Intendo potenziare al massimo l'influenza del clero, perché conto su di esso per propagare la buona filosofia che insegna all'uomo che si trova in questo mondo per soffrire e non quell'altra che all'opposto dice all'uomo: godi.".
Thiers dava qui espressione alla morale della classe borghese, di cui incarnò il feroce egoismo e l'intelligenza ristretta.
Allorché lottava contro la nobiltà sostenuta dal clero, la borghesia sbandierava il libero esame e l'ateismo; ma, una volta al potere, mutò tono e atteggiamento; oggi intende fare della religione un puntello della sua supremazia economica e politica.
Nel XV e nel XVI secolo, aveva allegramente ripreso la tradizione pagana ed esaltava la carne e le sue passioni condannate dal cristianesimo; oggi, satura di beni e di piaceri, rinnega gli insegnamenti dei suoi pensatori, i Rabelais, i Diderot, e predica l'astinenza ai salariati.
La morale capitalistica, miserevole parodia di quella cristiana, colpisce di anatema la carne del lavoratore; si dà come ideale quello di ridurre al minimo i bisogni del produttore, di sopprimere le sue gioie e le sue passioni e di condannarlo al ruolo di macchina fornitrice di lavoro senza tregua ne remissione.
I socialisti rivoluzionari devono riprendere la lotta già sostenuta dai filosofi e dai libellisti della borghesia; devono muovere all'assalto della morale e delle teorie sociali del capitalismo; devono demolire, nelle teste della classe chiamata all'azione, i pregiudizi inculcativi dalla classe dominante; devono proclamare in faccia ai filistei di tutte le morali che la terra cesserà di essere la valle di lacrime del lavoratore; che, nella futura società comunista, che fonderemo "pacificamente se possibile, altrimenti con la violenza," le passioni degli uomini avranno briglia sciolta, poiché "tutte sono buone per loro natura, noi dobbiamo solo evitarne il cattivo uso e i loro eccessi," e questi si potranno evitare solo controbilanciandoli a vicenda, solo sviluppando armonicamente l'organismo umano, giacché, come dice il dottor Beddoe, "solo quando una razza raggiunge l'apice del suo sviluppo fisico raggiunge anche il punto più alto di energia e vigore morale."
Di questa stessa opinione era il grande naturalista Charles Darwin”.

E passiamo pure a rivedere vari brani del Capitolo 2

[ Benedizioni del lavoro ]

...
Nel 1770 fece la sua comparsa a Londra uno scritto anonimo intitolato: Saggio sugli affari e il commercio.
Esso suscitò a quell’epoca un certo scalpore. Il suo autore, grande filantropo, s’indignava per il fatto che “la plebe manifatturiera d’Inghilterra si era messa in testa l’idea fissa che, in quanto Inglesi, tutti gli individui che la compongono hanno, per diritto di nascita, il privilegio di essere più liberi e più indipendenti degli operai di qualunque altro paese d’Europa.
Tale idea può avere una sua utilità per i soldati di cui stimola il valore; ma meno gli operai delle manifatture ne sono imbevuti e meglio è per loro stessi e per lo Stato.
Degli operai non dovrebbero mai ritenersi indipendenti dai loro superiori.
E’ estremamente pericoloso incoraggiare simili infatuazioni in uno Stato mercantile come il nostro nel quale i sette ottavi forse della popolazione hanno poca o nessuna proprietà.
La cura sarà completa solo quando i nostri poveri dell’industria si rassegneranno a lavorare sei giorni in cambio della stessa somma che guadagnano attualmente in quattro.”
Così, quasi un secolo prima di Guizot, veniva apertamente predicato a Londra il lavoro come freno alle nobili passioni dell’uomo.
“Più i miei popoli lavoreranno, meno saranno i vizi,” scriveva da Osterode, il 5 maggio, 1807, Napoleone. “Io sono l’autorità […] e sarei disposto a ordinare che alla domenica, dopo le funzioni religiose, si riaprano le botteghe e gli operai vengano restituiti al loro lavoro.”

[ ideal workhouses ]

Per estirpare l’ozio e piegare i sentimenti di fierezza e di indipendenza che esso genera, l’autore del Saggio sugli affari e il commercio proponeva di rinchiudere i poveri in case ideali del lavoro (ideal workhouses) che sarebbero divenute “delle case di terrore in cui si costringerebbe a lavorare per 14 ore al giorno, di modo che, tolto il tempo per mangiare, resterebbero 12 ore piene e nette di lavoro.”
Dodici ore di lavoro al giorno, ecco l’ideale dei filantropi e dei moralisti del XVIII secolo.
Come siamo andati oltre questo nec plus ultra! Le officine moderne sono diventate delle case di correzione ideali dove si incarcerano le masse operaie e si condannano ai lavori forzati per 12 e 14 ore non solo gli uomini, ma le donne e i bambini!
E pensare che i figli degli eroi del Terrore si sono lasciati degradare dalla religione del lavorò al punto di accettare dopo il 1848, come una conquista rivoluzionaria, la legge che limitava a dodici ore il lavoro nelle fabbriche, e che hanno proclamato il diritto al lavoro un principio rivoluzionario.
Vergogna per il proletariato francese!
Soltanto degli schiavi sarebbero stati capaci di una tale bassezza.
Prima che un Greco dei tempi eroici potesse concepire una simile abiezione ci sarebbero voluti vent’anni di civiltà capitalistica.
E se i dolori del lavoro forzato, se le torture della fame si sono abbattute sul proletariato più numerose delle cavallette della Bibbia, è stato lui stesso a invocarle.
Questo lavoro, che nel giugno 1848 gli operai reclamavano con le armi in pugno, essi lo hanno imposto alle loro famiglie; e hanno consegnato ai baroni dell’industria le loro mogli e i loro figli.
Con le loro stesse mani hanno demolito i loro focolari domestici; con le loro stesse mani hanno fatto perdere il latte alle loro donne; le sventurate, incinte e mentre ancora allattavano i loro bambini, sono dovute andare nelle miniere e nelle manifatture a piegare la schiena e a logorarsi i nervi; con le loro stesse mani essi hanno spezzato la vita e il vigore dei loro figli.
Vergogna per i proletari!

[ vergogna ]

Dove sono le comari di cui narrano i nostri fabliaux e le nostre antiche novelle, ardite nel parlare, di robusto appetito e amanti della divina bottiglia?
Dove sono quelle gagliarde sempre in movimento, sempre attorno ai fornelli, sempre a cantare, sempre fonti di vita e di gioia, che partorivano senza dolore figli sani e robusti?
Al loro posto oggi vediamo delle ragazze e delle donne di fabbrica, fiori stenti e scoloriti, esangui, lo stomaco malandato, le membra fiacche!…
Non hanno mai conosciuto il piacere vigoroso e non saprebbero raccontare con allegra disinvoltura come furono penetrate la prima volta.
E i bambini?
Dodici ore di lavoro per i bambini.

[ congresso di beneficenza ]

Al primo congresso di beneficenza tenutosi a Bruxelles, nel 1857, uno dei più ricchi manifatturieri di Marqueste, tra gli applausi del pubblico raccontava con nobile soddisfazione di un dovere compiuto: “ Abbiamo introdotto qualche distrazione per i bambini. Insegniamo loro a cantare durante il lavoro, e anche a contare lavorando: ciò li distrae e fa loro affrontare con coraggio queste dodici ore di lavoro che sono necessarie per procurar loro i mezzi di sussistenza.”
Dodici ore di lavoro, e quale lavoro!
Imposte a bambini di non ancora dodici anni!
I materialisti rimpiangeranno sempre che non ci sia un inferno per rinchiuderci questi cristiani, questi filantropi, carnefici dell’infanzia!
O miseria!
Ma tutti i Jules Simon dell’Accademia di scienze morali e politiche, tutti i Germinys della gesuiteria non avrebbero saputo inventare un vizio più abbrutente per l’intelligenza dei bambini, più corruttore dei loro istinti, più distruttore del loro organismo, del lavoro nell’atmosfera viziata dell’officina capitalistica.
Si dice che la nostra epoca è il secolo del lavoro; è infatti il secolo del dolore, della miseria e della corruzione.

[ quel ciarlatano di Victor Hugo ]

Eppure i filosofi, gli economisti borghesi, dalla penosa confusione di Auguste Comte alla risibile chiarezza di Le-roy-Beaulieu; i letterati borghesi, da quel ciarlatano romantico di Victor Hugo all’ingenuamente grottesco Paul de Kock, tutti hanno intonato i loro canti nauseabondi in onore del dio Progresso, questo figlio primogenito del Lavoro.
A sentir loro, la felicità avrebbe regnato sulla terra: se ne presentiva già l’avvento.
Andavano nei secoli passati a scovarvi la polvere e le miserie feudali per farne dei tristi contraltari alle delizie dei giorni nostri.
Ci han rotto le tasche, questi individui satolli, soddisfatti, che ancora poco tempo fa si annoveravano tra la servitù dei gran signori, oggi pennivendoli della borghesia lautamente remunerati; ce le hanno rotte, con il contadino del retore La Bruyère….

[ minotauro ]

…(A Mulhouse, cinquant’anni fa) era l’epoca d’oro del lavoratore…. A migliaia gli operai accorrevano al fischio della macchina.
“Un gran numero di loro,” dice Villerme, “cinquemila su diciassettemila, erano costretti per l’esosità degli affitti a stabilirsi nei villaggi limitrofi. Taluni abitavano a oltre due leghe dalla manifattura dove lavoravano.
“ A Mulhouse, a Dornach il lavoro cominciava alle cinque del mattino e terminava alle cinque di sera, d’estate come d’inverno… Bisogna vederli arrivare in città ogni mattina e partirne la sera.
C’è fra loro una moltitudine di donne pallide, magre, che camminano a piedi nudi nel fango e che portano, in mancanza di ombrello, i loro grembiuli o le sottogonne rovesciati sulla testa, quando piove o quando nevica, per proteggersi il volto e il collo, e un numero ancor più considerevole di fanciulli non meno sporchi, non meno smunti, coperti di stracci, tutti imbrattati dell’olio lubrificante che sgocciola loro addosso mentre lavorano. >
Sainte-PélagieParis (France) 1883
Questi ultimi, meglio difesi dalla pioggia grazie alla impermea-bilità delle loro vesti, non hanno nemmeno al braccio, come le donne di cui s’è detto, un paniere con le provviste per la giornata; ma tengono in mano o nascondono sotto il camiciotto o come possono, il pezzo di pane che li dovrà nutrire fino all’ora del loro rientro a casa….

[ residenze ]

….Ed ecco adesso i tuguri dove si stipano coloro che abitano in città: “Ho visto a Mulhouse, a Dornach e nelle vicinanze alcuni di questi miserabili alloggi dove due famiglie dormono ciascuna in un angolo, sulla paglia gettata per terra e tenuta insieme da due tavole…
La miseria in cui vivono gli operai dei cotonifici nel dipartimento dell’Alto Reno è cosi profonda da produrre il triste risultato che, mentre nelle famiglie dei fabbricanti, dei negozianti, dei direttori di fabbrica la metà dei figli raggiunge i ventun anni, questa stessa metà cessa di esistere prima di aver raggiunto il secondo anno di vita nelle famiglie dei tessitori e degli operai delle filande di cotone.”
Parlando del lavoro in fabbrica, Villerme aggiunge:
“Non si tratta di un lavoro, di una mansione, si tratta di una tortura, e questa viene inflitta a bambini dai sei agli otto anni […] E’ sopra ogni altra cosa questo lungo supplizio quotidiano a minare gli operai nelle filande di cotone.”
E, a proposito della durata del lavoro, Villerme osservava che i forzati dei bagni penali lavorano solo dieci ore, gli schiavi delle Antille nove ore in media, mentre nella Francia che aveva fatto la Rivoluzione dell’ ‘89, che aveva proclamato i pomposi Diritti dell’uomo, esistevano delle manifatture in cui la giornata di lavoro era di sedici ore, sulle quali si accordava agli operai un’ora e mezzo per i pasti.

[ mazze familiari ]

O miserabile aborto dei principi rivoluzionari della borghesia!
O lugubre dono del suo dio Progresso! I filantropi esaltano come benefattori dell’umanità coloro i quali, per arricchirsi oziando, danno del lavoro ai poveri; meglio sarebbe seminare la peste, avvelenare le sorgenti piuttosto che erigere una fabbrica in mezzo a una popolazione rustica. Introducete il lavoro di fabbrica e addio gioia, salute, libertà; addio a tutto ciò che rende la vita bella e degna di essere vissuta.
[nota: Gli Indiani delle tribù bellicose del Brasile uccidono i loro malati e i loro vecchi; testimoniano cosi del loro affetto ponendo fine a una vita che non è più rallegrata dai combattimenti, dalle feste e dalle danze. Tutti i popoli primitivi davano ai loro congiunti queste prove di affetto: i Massageti del mar Caspio (Erodoto), così come i Wens della Germania e i Celti della Gallia. Nelle chiese di Svezia ancora recentemente si conservavano delle mazze dette mazze familiari che servivano a liberare i genitori delle tristezze della vecchiaia. Come sono degenerati i proletari moderni per accettare pazientemente le spaventevoli miserie del lavoro di fabbrica.]

[ lavorate ]

E gli economisti continuano a ripetere agli operai: Lavorate per accrescere il bene sociale! Eppure un economista, Destut de Tracy, risponde loro:
“Le nazioni povere, ecco dove il popolo sta bene; le nazioni ricche, ecco dove di regola il popolo è povero.”
E il suo discepolo Cherbuliez prosegue: “Gli stessi lavoratori, cooperando all’accumulazione dei capitali produttivi, contribuiscono a che, prima o poi, vengano privati di una parte del loro salario.”

[ beati i mansueti ]

Ma, assordati e rimbecilliti dai loro stessi schiamazzi, gli economisti rispondono: Lavorate, lavorate in continuazione per creare il vostro benessere!
E, in nome della mansuetudine cristiana, un prete della Chiesa anglicana, il reverendo Townshend, salmodia: Lavorate, lavorate giorno e notte; lavorando accrescete la vostra miseria e la vostra miseria ci dispensa dall’imporvi il lavoro con la forza della legge.
L’imposizione legale del lavoro “produce troppo dolore, esige troppa violenza e fa troppo rumore; la fame, invece, non solo è un mezzo di pressione pacifico, silenzioso, incessante, ma essendo il movente più naturale del lavoro e dell’industria stimola anche gli sforzi più efficaci.”
Lavorate, lavorate, proletari per far più grandi la fortuna sociale e le vostre miserie individuali, lavorate, lavorate affinché, divenendo più poveri, abbiate ancor più ragioni per lavorare ed essere miserabili….

[ crisi ]

…..Se le crisi industriali fanno fatalmente seguito ai periodi di superlavoro come la notte segue il giorno, portando con se la disoccupazione forzata e la miseria senza speranza, producono anche la inesorabile bancarotta.
Finché il fabbricante ha credito, lascia la briglia alla smania di lavoro, chiede prestiti e ancora prestiti per fornire agli operai la materia prima.
Stimola la produzione senza riflettere che il mercato si satura e che, se le sue merci non si vendono, le sue cambiali vengono a scadenza….
Infine arriva il disastro e i magazzini straboccano; si gettano allora tante merci dalla finestra da non sapere come siano entrate dalla porta.
E il valore delle merci distrutte ammonta a centinaia di milioni; nel secolo scorso venivano bruciate o gettate in acqua.

[ esportazione ]

Ma prima di arrivare a questa conclusione, i fabbricanti percorrono il mondo in cerca di sbocchi per le merci che si ammassano; costringono il loro governo ad annettersi il Congo, a impadronirsi dei Tonkino, a demolire a colpi di cannone le muraglie della Cina, per smerciarvi le loro cotonate.
Nei secoli scorsi fu un duello a morte tra Francia e Inghilterra per assicurarsi il privilegio esclusivo di vendere in America e nelle Indie.
Migliaia di uomini giovani e vigorosi hanno arrossato i mari col loro sangue nel corso delle guerre coloniali dei secoli XVI, XVII e XVIII.
I capitali abbondano come le merci.
I finanzieri non sanno più dove piazzarli; vanno allora dalle nazioni felici che se la spassano al sole fumando sigarette, a impiantarvi ferrovie, a erigere fabbriche, a importare la maledizione del lavoro.
E questa esportazione di capitali francesi ha termine un bel mattino a causa di complicazioni diplomatiche: in Egitto, la Francia, l’Inghilterra e la Germania stavano per accapigliarsi per sapere quali usurai sarebbero stati pagati per primi; a causa di guerre in Messico dove si mandano soldati francesi a fare il mestiere di esattore per riscuotere debiti insolvibili.
Queste miserie individuali e sociali, per grandi e innumerevoli che siano, per eterne che appaiano, spariranno come le iene e gli sciacalli all’avvicinarsi del leone, allorché il proletariato dirà: “Lo voglio.”

[ flagello ]

Ma perché pervenga alla coscienza della sua forza, è necessario che il proletariato schiacci sotto i piedi i pregiudizi della morale cristiana, economica, libero-pensatrice; è necessario che ritorni ai suoi istinti naturali, che proclami i Diritti dell’ozio, mille volte più sacri e più nobili degli asfittici Diritti dell’uomo, escogitati dagli avvocati metafisici della rivoluzione borghese; che si costringa a non lavorare più di tre ore al giorno, a non far niente e a far bisboccia per il resto della giornata e della notte…




Cari compagni,
fin qui il mio compito è stato facile, non avevo che da descrivere dei mali reali a noi tutti, ahimè, ben noti!
Ma convincere il proletario che la parola d’ordine che gli è stata inculcata è perversa, che il lavoro sfrenato al quale si è dato dagli inizi del secolo è il più tremendo flagello che mai abbia colpito l’umanità, che il lavoro diverrà un complemento del piacere dell’ozio, un benefico esercizio per l’organismo umano, una passione utile all’organismo sociale solo quando sarà saggiamente regolamentato e limitato a un massimo di tre ore al giorno, questo è un compito arduo al di sopra delle mie forze; solo dei fisiologi, degli igienisti, degli economisti comunisti potrebbero i affrontarlo.
Nelle pagine che seguono, mi limiterò a dimostrare che, dati i mezzi di produzione moderni e la loro illimitata capacità riproduttiva, bisogna reprimere la passione aberrante degli operai per il lavoro e obbligarli a consumare le merci che producono.


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